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Il ruolo del Mobility Manager

3 minuti di lettura
Il ruolo del Mobility Manager, di cui si sente parlare tanto quando si entra nel discorso della mobilità e degli spostamenti, è sulla bocca di tutti. Ma è chiaro quale sia il suo ruolo all’interno delle aree in cui opera?

Non è facile capirlo, perché il suo compito è connettere vari utenti: dagli Enti pubblici, alle aziende, passando per il territorio e non solo. Negli anni la sua importanza è aumentata, ma non si sa ancora quale sia il suo limite, semplicemente perché la percezione del suo compito è diversa a seconda delle varie realtà con le quali entra in contatto. Roberta Ceppi è Mobility Manager da tempo e lo è diventata grazie ai corsi di formazione tenuti da ExtraGiro e dal Gruppo LEN

«Ho partecipato al primo corso di formazione tenuto da ExtraGiro – ci dice – in collaborazione con il Gruppo LEN. Consisteva in 8 ore di lezione a livello generale, poi nel tempo si è strutturato notevolmente, arrivando a durare cinque mesi con un esame finale. Per anni ho lavorato nel mondo del ciclismo, quindi mi è sembrato naturale fare un passo verso questo ruolo, ancora tutto da scoprire, per parlare di mobilità sostenibile. La figura del Mobility Manager è riconosciuta dalla fine degli anni ‘90 ma ancora oggi è difficile far capire la sua importanza».

A misura di auto

L’Italia, si sa, è un Paese a misura di automobile. Un fattore determinante che va preso in considerazione, il Mobility Manager parte delle difficoltà o le esigenze e si muove per risolverle. La più grande è la resistenza al cambiamento, che fa parte dell’animo umano.

«Mi è capitato più volte – spiega Ceppi – di presentarmi ad aziende o Enti pubblici e sentirmi dire: “Sei troppo avanti per quello che facciamo”. Si parla di Agenda 2030 e siamo qui a dire che sono troppo avanti, come se il 2030 non sia dietro l’angolo. Nel resto d’Europa le aziende stanno lavorando in questa direzione. L’UE (Unione Europea) ha dei bandi per progetti che includono la mobilità sostenibile, le aziende possono partecipare, vincerli e ricevere anche dei sussidi. Chi partecipa ha l’idea di voler migliorare il proprio impatto sull’ambiente e ridurre le emissioni di CO2. Ma non si tratta di un interesse dei grandi capi d’azienda, ma anche dei singoli dipendenti, sono loro che sono chiamati ad agire».

Per le aziende

Una volta che un’azienda decide di fare un programma di mobilità sostenibile, che può durare un anno come tre o cinque, interviene il Mobility Manager. Entra in contatto con l’ufficio delle risorse umane ed è chiamato ad indagare sulle abitudini dei dipendenti. In primis capire quanti sono, poi vedere in che modo si spostano, trovare dei mezzi alternativi e parlare anche con enti territoriali. 

«Prendiamo un’azienda da 50 dipendenti – spiega Ceppi – in una grande città. Il Mobility Manager arriva e tramite le risorse umane fa un’indagine sugli spostamenti dei dipendenti, attraverso un semplice questionario. Intanto si informa su quelle che sono le alternative all’automobile, quindi capisce se ci sono stazioni dei treni nei paraggi, fermate del pullman o piste ciclabili. Si confronta con i dipendenti e cerca di capire come mai non usino mezzi alternativi. La risposta più gettonata, che fa capire la difficoltà di far cambiare abitudine agli esseri umani è: “A me cosa ne viene in tasca?”. Magari la stazione è lontana, non ci sono fermate del pullman o le ciclabili non arrivano ovunque. Allora il Mobility Manager va a parlare con le aziende dei trasporti pubblici o il Comune e cerca di far installare delle alternative, come una fermata del pullman davanti all’azienda o una ciclabile. La parte per incentivare il dipendente è forse la più semplice visto che spesso si tratta di un contributo economico. L’azienda si fa carico dei biglietti dei trasporti pubblici o magari rimborsa una parte di spesa se si decide di comprare la bici. 

Non serve essere drastici per cambiare…».

Basta poco

Spesso basta poco, ad esempio prendere il treno una o due volte a settimana è già qualcosa. Oppure andare al lavoro in bici quando le giornate diventano belle. Quando si dice che l’Italia è un Paese a misura di macchina si intende anche che le persone guidano anche solo per coprire tre chilometri. Cambiare mentalità è difficile, non tutti sono disposti, ma se qualcuno inizia il carro inizia a muoversi. Serve dare un esempio.«Pensate ad un dipendente che prende la macchina per andare in stazione – chiude Ceppi – e poi va al lavoro in treno. L’incentivo per lui potrebbe essere quello di andare in bici in stazione e poi mantenere l’abitudine del treno, questo è un esempio di intermodalità. La miglior cosa è operare su più anni. Un progetto a breve termine, su un anno, non porta vantaggi a nessuno. Scegliere di impegnarsi per un maggior tempo permette di programmare, conoscere, informarsi e soprattutto dà un senso di continuità. Un bando europeo funziona su anni, se si vuole vincerlo serve portare un programma che lo rispetti. Non si parla solo di Europa, ma anche di Italia, con le Regioni come capofila. L’esempio dell’Agenda 2030 lo fa capire bene, per cambiare servono tempo e tanta voglia».

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